La ruminazione è invece caratterizzata dallo spostamento dell’attenzione sulle emozioni negative provate e sulle loro cause, presunte o ben definite che siano, ed è orientata all’analisi del malessere e a ciò che lo determina in modo passivo, ossia non mirata alla possibile soluzione del problema o all’elaborazione emotiva del disagio. La sofferenza, pensata e vissuta, rimane quindi un dato di fatto su cui basare l’attività della mente in modo reiterato.

La ruminazione è tipica del disturbo depressivo, ma ha una dimensione transdiagnostica, essendo infatti correlata anche ad altri disturbi del tono dell’umore, al disturbo post-traumatico da stress e ai disturbi d’ansia.

Rimuginio e ruminazione tendono a ripresentarsi con il medesimo contenuto e ogni volta hanno una precisa partenza, un momento in cui iniziano a esistere nella mente. Prendono il via da un primo pensiero automatico, che la mente evoca in totale libertà e autonomia in certe situazioni stimolo. Detto in altre parole, la mente non chiede il permesso di mandarci i pensieri iniziali che quella situazione scatena e scatenerà in futuro. Ciò accade perché il funzionamento del cervello risponde alle leggi dell’apprendimento, ossia impara a pensare in un certo modo in base a determinati stimoli se l’associazione tra pensiero e stimolo si ripete nel tempo. Una volta appresa tale associazione, uno stimolo evoca un pensiero a prescindere dalla nostra volontà.

Per l’ipocondriaco, il primo automatismo di pensiero di fronte a un sintomo fisico anche di banale portata sarà l’interpretazione di quel sintomo come una grave malattia. E’ un processo che la mente fa spontaneamente, ma questo ancora non è rimuginio, bensì un evento mentale associato a uno stimolo significativo per il soggetto che scatena una certa emozione conseguente. Rimuginio o ruminazione, per entrambi il processo è il medesimo, è ciò che accade dopo, è un atto del tutto cosciente che implica la nostra partecipazione attiva nel far seguire agli automatismi mentali molti altri pensieri, che per altro hanno in genere il compito di confermare i primi. Più però confermiamo il pensiero automatico e più le emozioni negative, l’ansia e la depressione aumentano d’intensità e durata.

Automatismi di pensiero, a cui segue un’attività rimuginativa o ruminativa, sono presenti anche al di fuori della psicopatologia; basti pensare a quando qualcuno ci manda un messaggio più freddo del solito o non ci saluta come di consueto e ci troviamo a riflettere sul perché, se per caso abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, a come fare per rimediare e simili.

Anche in questo caso parte un primo pensiero che poi seguiamo senza metterlo in discussione. Lo pensiamo quindi è vero, dobbiamo pensarci e continuare a pensarci, per poi scoprire che la persona in questione era solo di fretta o aveva qualche preoccupazione.

Come fare per smettere di rimuginare?

Il primo passo è renderci conto che stiamo rimuginando, quindi capire quali sono i pensieri che seguiamo in modo acritico in specifiche situazioni.

Per fare ciò, sono importanti tecniche di mindfulness che rendono consapevoli di quel che accade nel qui e ora, perché senza questa consapevolezza la mente diventa come un fiume di pensieri che ci trascina lontano, spesso anche dalle nostre reali intenzioni.

Questo discorso ovviamente vale solo per quei pensieri che noi giudichiamo essere dannosi, superflui o patologici e non per l’attività mentale utile, proficua e piacevole.

Successivamente occorre imparare a mettere in discussioni quegli automatismi di pensiero che magari sono solo nostre interpretazioni o esagerazioni, oppure pensieri assolutamente aderenti al reale ma riferiti a una condizione non modificabile, per cui diventa del tutto inutile pensarci troppo.

Il passo poi più complesso è abituarsi a non seguire il pensiero automatico, che di per sé non è del tutto eliminabile dalla mente e tende a ripresentarsi, perché appunto causato da apprendimenti spesso consolidati e aggravati, in alcuni casi, da una condizione psicopatologica o da vulnerabilità personali. Qui entrano in gioco le psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, che insegnano a cambiare non tanto il contenuto del pensiero, quanto la relazione che noi abbiamo con esso, ossia non necessariamente di fusione assoluta per cui diventa l’unica realtà non ignorabile, ma di defusione, ossia di distacco. Ciò non significa respingere i pensieri o combatterli, sarebbe come lottare contro i mulini a vento; significa invece imparare ad accoglierli senza seguirli e a lasciarli andare.

Molto esplicativa è la storiella del cavaliere a cui viene chiesto quale sia la sua direzione e la risposta è: “non so, chiedilo al cavallo”. Se sostituiamo il cavallo con la nostra mente, la situazione non si discosta di molto. Capita infatti molto più spesso di quanto si possa credere che sia lei a portare in giro noi e non viceversa, ma a prendere le briglie in mano si può sicuramente imparare.

E' doveroso in conclusione aggiungere che in condizioni di psicopatologia il costante lavorio della mente necessita di un trattamento anche farmacologico, perchè in presenza di uno stato d'ansia acuto o depressivo marcato diventa quantomai difficile gestire il pensiero nelle sue svariate forme rimuginative. A tal proposito si legga l'interessante e approfondito articolo del Prof. Alessandro Rotondo, specialista in psichiatra e docente universitario:

https://www.alessandrorotondo.com/blog/penso-troppo-e-vivo-male-comprendere-e-affrontare-il-rimuginio-e-la-ruminazione-mentale/

© 2024, Donatella Bielli Psicologa - PI: 13395030151 - Numero iscrizione Ordine Psicologi della Lombardia 4441 - pec: donatella.bielli.243@psypec.it

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