Questa condizione patologica può manifestarsi a tutte le età, compresa quella evolutiva, e con gravità differenti.
Nella maggioranza dei casi chi è affetto da anginofobia ha vissuto reali esperienze traumatiche di soffocamento dopo aver ingerito del cibo, oppure ha assistito alla medesima situazione accaduta a famigliari o amici.
Ciò che mantiene il problema clinico sono le strategie che si mettono in atto per far fronte al pericolo che il cibo vada di traverso, con esiti che irrazionalmente vengono vissuti come drammatici e irreparabili. Questo significa che ciò che mantiene la fobia in atto è proprio il tentativo di risolverla,
Il primo evento traumatico causa infatti la messa in atto di una serie di comportamenti di evitamento e protettivi che hanno la funzione di “salvarsi” dall’evento temuto. Il pasto viene anticipato con pensieri a connotazione ossessiva relativi alla pericolosità dello stesso, a ciò che potrebbe accadere se il processo della deglutizione non andasse a buon fine e a quali cibi evitare o quali procedure mettere in atto per far scivolare meglio e con maggiore sicurezza il cibo dalla bocca allo stomaco. Il pasto non diventa più un momento di piacere, durante cui ci si rilassa, ma una situazione da tenere strettamente sotto controllo.
L’ansia che accompagna il pasto o i momenti precedenti, può essere anche molto elevata e arrivare a veri e propri attacchi di panico.
Generalmente vengono evitati alcuni cibi dalla consistenza solida o dalle grandi dimensioni, come la carne e gli spaghetti. Via via gli evitamenti possono essere talmente radicali da spingere il paziente a mangiare pochissimi alimenti dalla consistenza molle o liquida.
L’evitamento ha lo scopo di abbassare l’ansia ed è efficace in questo suo effetto, ma crea un circolo vizioso da cui difficilmente il paziente riesce ad uscire. Il senso di pseudo-benessere garantito dall’evitamento, spinge infatti il paziente a continuare a evitare e spesso anche a estendere l’evitamento a più cibi. L’evitamento non permette mai di sperimentare che si può mangiare senza soffocare e la mancata esperienza mantiene e spesso aggrava il disturbo. Il cervello si “convince” che il pericolo non sussiste solo se lo sperimenta. A nulla servono le parole di rassicurazione dei parenti, Il cervello in stallo per un problema fobico, rimane bloccato sulla percezione del pericolo, per quanto fittizio e senza senso possa essere.
Evitare fa pensare all’anginofobico che non è successo nulla di drammatico durante il pasto proprio perché ha evitato determinati cibi e non perché in realtà il rischio è del tutto irrisorio, tanto che gli esseri umani, di ogni età su tutto il pianeta, mangiano senza timori simili. Il ripetersi dell’evitamento consolida poi tutto il processo di attribuzione della pericolosità irrazionale al processo alimentare.
Oltre all’evitamento, si può anche ricorrere a comportamenti chiamati “protettivi”, ossia che proteggono dal pericolo temuto, quali frullare il cibo, mangiare omogeneizzati, bere molta acqua durante i pasti e così via.
Va da sé che tutto questo repertorio comportamentale ha un impatto sulla vita sociale del paziente. Difficilmente in queste condizioni si è a proprio agio nel partecipare a pranzi e cene o nel frequentare la mensa scolastica.
Da non sottovalutare anche la ricaduta da un punto di vista fisico, con possibili carenze alimentari e sottopeso.
In ambito terapeutico, si agisce ripristinando molto gradualmente il comportamento alimentare sano, che significa eliminare lentamente gli evitamenti con l’introduzione progressiva di ogni tipologia di cibo. Si agisce anche sulla cognizione di eccessiva pericolosità relativa alla deglutizione e si eliminano sempre molto gradualmente i comportamenti protettivi. L’obiettivo è quello di portare il paziente ad avere una sana alimentazione e di renderlo in grado di avere un approccio sereno ai pasti e alla condivisione sociale degli stessi.